Mi chiamo Ambra Rondinelli e sono un’editor. Non dico che “faccio l’editor” perché sento che il mio lavoro coincide con quello che sono, con il modo in cui interpreto la realtà, con la mia vita quotidiana e il mio futuro.
Essere un’editor significa avere una parte del cervello occupata sempre a pensare alle storie scritte dagli altri, ma soprattutto significa aiutarti a far funzionare il tuo romanzo in ogni suo aspetto, dalla trama alla struttura, allo stile. I miei compiti sono: comprendere i meccanismi del tuo mondo, appassionarmi alla tua storia, voler bene ai tuoi personaggi, credere nella verità che vuoi trasmettermi con la tua scrittura e impegnarmi a farti capire come rendere tutto questo al meglio, perché sia interessante e coinvolgente per il lettore.
Lavorare all’editing di un manoscritto non è né veloce né facile. Richiede impegno, tempo, volontà e soprattutto consapevolezza per raggiungere un buon risultato. E quel buon risultato ti serve perché chi apre il romanzo ti dà pochissimi secondi di attenzione per decidere se continuare a leggerlo e, ancora prima, se comprarlo. Io sono qui per questo: ti posso aiutare concretamente a ragionare e a modificare gli aspetti deboli del testo, affrontando insieme la strada che devi percorrere per passare da «ho scritto di getto come mi veniva» a «ho scritto sapendo cosa volevo dire e come». La differenza la sentirai tu e la sentirà il tuo lettore.
La mia storia
Al liceo ero una secchiona – sì, non cerco sinonimi più accattivanti né provo a far passare come genialità innata un’etichetta che ho acquisito con ore e ore di impegno. Io sono per il duro lavoro e credo poco alle scintille di quell’entità fumosa chiamata “talento” o “genio”. Quando avevo un’interrogazione mi alzavo alle cinque per ripassare, studiavo tutti i giorni fino a sera, spesso anche nel fine settimana. I bulli mi lasciavano stare, nonostante i miei occhiali spessi e la mia corporatura minuta, solo perché suggerivo durante le verifiche. Finito il liceo, avevo 18 anni e poche idee chiare, avrei voluto studiare Lettere o Psicologia, ma tutti (persino i professori) mi sconsigliarono quella strada. Queste materie non portano a un lavoro, dicevano, finirai per studiare dieci anni e fare la commessa in qualche catena. E io stupidamente li ascoltai.
Venivo, e vengo, da una famiglia umile: ero stata la prima e l’unica ad andare al liceo, nonostante due fratelli più grandi, ed ero la prima e l’unica a voler frequentare l’università. Non mi era ben chiaro con quali criteri avrei dovuto scegliere l’indirizzo di studio e a casa avevo poche possibilità di confronto, ma una certezza era ben stampata nel mio cervello: non potevo studiare per cinque anni (o di più) senza lavorare. Come detto, la mia famiglia non era ricca, entrambi i miei genitori avevano iniziato a lavorare quando la pubertà si affacciava sui loro volti, ed era impensabile che, superata la maggiore età, continuassi a studiare senza contribuire alle spese familiari. Decisi di iscrivermi a Giurisprudenza, mi pareva una buona via di mezzo: era un corso morbido sulla frequenza, mi permetteva di lavorare; e inoltre garantiva una grande diversificazione di possibili sbocchi lavorativi. Evviva Giurisprudenza. Abbasso Giurisprudenza. Ci misi poco a rendermi conto che le materie non mi appassionavano, le pagine erano aride e mi pareva che le frasi ruotassero su loro stesse per essere il più oscure e ambigue possibili. Una pugnalata per me che amavo così tanto un buon modo di esprimersi. Cercai di tenere duro per un po’, sapendo già che prima o poi avrei abbandonato quella strada.
Nel frattempo lavoravo: negli anni dai 18 ai 25 ho lavorato nei posti più diversi, con i contratti più assurdi, con i ruoli più differenti. Tra questi, saltuariamente lavoravo anche nel ristorante di mio padre come cameriera. Mio padre ha lavorato nello stesso ristorante per quarant’anni, è entrato a 14 anni come lavapiatti, poi è stato aiuto-cuoco, è diventato uno dei cuochi principali (era un ristorante con cinque sale e in cucina ci lavoravano decine di persone), infine – quando la proprietaria è mancata – lui e gli altri numerosi dipendenti hanno deciso di rilevare la gestione del ristorante insieme, diventando soci. Per questo, ogni tanto, venivo chiamata per sostituire chi era in festa o quando c’erano gruppi numerosi e serviva qualcuno in più. Io andavo a lavorare sempre con un libro in borsa, lo lasciavo nella stanzetta dei camerieri e durante i tempi morti del servizio leggevo qualche pagina. Ho centinaia di ricordi precisi di io che leggo un libro tra un’orata alla ligure e un fritto misto, le pagine unte dalle mie dita, i colleghi che fanno la pausa sigaretta e io che scopro come va a finire la storia di Seymour Levov.
Alla fine di una di queste giornate al ristorante, mio padre disse che mi doveva parlare. Ricordo che avevo appena finito di leggere Fahrenheit 451 e mi girava in testa quella frase: Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.
Fahrenheit 451 è un libro che ti ricorda perché amare i libri è importante, e in quel momento io ero come non mai presa da quell’amore, Bradbury aveva cementificato la mia fedeltà.
Mio padre sorrideva, era emozionato come difficilmente capitava di vederlo, mi disse: «Ambra, ho una cosa importante da dirti»
Io pensavo a: Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di ‘fatti’ al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere ‘veramente bene informati’. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.
Mio padre continuò: «P. ci ha riferito che si dimetterà a breve e io e gli altri ragazzi abbiamo deciso di offrirti il suo lavoro. Dovrai occuparti della parte burocratica, dei pagamenti ai fornitori, degli stipendi, di parlare con il commercialista, di gestire le sale e i camerieri. Avrai un contratto full-time, in regola e indeterminato. È un lavoro complicato, ma sono sicuro che ce la farai. E poi, chi lo sa, magari un domani potresti diventare socia anche tu».
Ora, io in quel momento non avevo un lavoro in regola e mi trovavo in quell’età di giovane adulta in cui nessuno più di me sapeva quanto fosse importante avere un’entrata regolare, un contratto che ti tuteli, la possibilità di un lavoro indeterminato che non finisca da un giorno all’altro. Significava avere la possibilità di costruirsi una vita, una casa, una famiglia; e lavorare con mio padre e persone che conoscevo da quando ero bambina equivaleva a poter avere ampia discrezionalità su permessi e ferie, lo sapevo. Però io non volevo quello. Io non volevo passare le mie giornate nel ristorante, non perché trovassi qualcosa di male in quel lavoro in sé, ma perché mai come in quell’istante, davanti a quella offerta, mi apparve chiaro che i libri erano tutta la mia vita e io volevo che il mio lavoro fosse qualcosa che c’entrava con i libri. Nessun altro lavoro sarebbe stato minimamente soddisfacente, se non riguardava le storie. E Fahrenheit 451, ancora dentro alla borsa che stringevo mentre parlavo con mio padre, era stato il libro giusto al momento giusto. Quello che mi ricordava cos’era davvero importante per me, cosa mi emozionava, cosa mi commuoveva e mi faceva sentire a casa.
Sul momento risposi solo: «Ci penso», mentre dentro di me la voce di Clarisse diceva: No, no no no, mi guadagnai un’occhiata perplessa da mio padre che pensava di avermi servito su un piatto d’argento quello che chiunque alla mia età avrebbe voluto.
Sapevo che sarebbe stato ferito da un mio no immediato ed ero consapevole che stavo rinunciando a uno stipendio sicuro, a un posto di lunga durata, in un momento in cui il mondo del lavoro offriva solo prospettive miserevoli. Non fu facile dire a mio padre che non volevo il lavoro, fu deluso dalla mia scelta, ma quel giorno mi resi conto che quello che io volevo dalla vita era occuparmi di libri e non c’era nulla – non un contratto a tempo indeterminato, non un buono stipendio, e neanche la stima di mio padre – che mi avrebbe reso ugualmente felice.
Quel giorno, con il mio no, sentii di salvare me stessa.
Fahrenheit 451 e il rifiuto del lavoro comodo oltre che sicuro furono lo spartiacque tra il vago desiderio di occuparmi di editoria rimanendo ancorata all’universo dei sogni futuri chissà quando realizzabili e il muovermi subito per ottenere quello che volevo. Cominciai a frequentare corsi sia dal vivo, a Milano e a Roma, sia online. Studiai (e ancora studio) scrittura, narratologia, correzione di bozze, norme redazionali, editing. Intanto arrivò la mia prima collaborazione lavorativa, con una piccola casa editrice, la seconda fu con un service editoriale, poi – più velocemente di quanto potessi immaginare – i clienti che mi chiesero di collaborare si moltiplicarono.
Oggi leggo circa un centinaio di manoscritti all’anno tra valutazioni, consulenze e editing.
Nel frattempo, il lavoro al ristorante fu dato a un’altra persona, tempo dopo mio padre è andato in pensione. Sono passati molti anni da quel giorno e lui, ancora adesso, non ha chiarissimo che lavoro faccio; se qualcuno gli chiede di cosa mi occupo, risponde: «Fa qualcosa che c’entra con i libri»: ed è esattamente quello che avevo sempre desiderato qualcuno dicesse di me.
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